Se dovessimo descrivere il lavoro del fundraiser con parole nostre, diremmo che il compito di questa figura è quello di “portare il Terzo Settore al di fuori del Terzo Settore”. Il suo mestiere, infatti, è dialogare con chi si trova all’esterno di un'organizzazione. Il fundraiser, nella relazione tra l’associazione e il pubblico esterno, svolge una funzione di collegamento, per cui la donazione è solo l'esito finale di un lavoro di semina che può essere anche molto lungo.
Del ruolo e della funzione del fundraiser si è parlato all’anteprima del Festival del Fundrasing 2019, al quale abbiamo presenziato con molta soddisfazione, viste le ricche anticipazioni e l’anfitrione d’eccezione Valerio Melandri, direttore del Master del Fundraising a Bologna e fondatore del Festival del Fundraising.
Dell’intervento di Valerio Melandri ci hanno colpito alcuni concetti che vogliamo condividere qui.
D’accordo, Valerio Melandri non ha pronunciato queste esatte parole. Però ha ricordato come nei libri contabili delle realtà non profit i fundraiser vengano spesso inseriti sotto la voce “costi generali”.
Un inquadramento che in realtà è molto parziale, visto che il lavoro del fundraiser è proprio quello di stimolare le donazioni che sostengono l’organizzazione. Allo stesso modo in cui un piano assicurativo non è semplicemente una voce di spesa ma un piano di sicurezza per evitare emorragie economiche potenzialmente distruttive per l’esistenza stessa dell’associazione.
Per dire “Sei un vero amico” spendiamo circa 41 €; per dire “Ti voglio bene” 88 €; per “sei nei miei pensieri” 93 €; per “ti amo” 100 €; per “sei tutta mia” 127 €. Per una proposta di matrimonio, invece, servono in media 450 €. Ma c’è anche un costo per farsi perdonare, perché chiedere scusa costa 192 €, mentre la variante più formale, chiedere “perdono”, costa 197 €.
Sono i numeri di una ricerca di QVC, che ci racconta come le cose che acquistiamo hanno un significato che va al di là del valore reale degli oggetti acquistati. Ogni acquisto che facciamo è un tentativo di essere più felici. Il fundraiser compete sullo stesso terreno di tutte le aziende del mondo, ovvero l’eterna ricerca della felicità da parte del consumatore.
Ma la felicità da acquisto soffre del paradosso di Easterlin: dopo una certa soglia di beni posseduti, la felicità non aumenta in modo lineare ma, anzi, decresce progressivamente.
Fare fundraising, dice Valerio Melandri, significa offrire alle persone la possibilità di continuare a essere felici anche dopo un acquisto. Il che ci porta al punto successivo.
La felicità da acquisto è legata al concetto di utilitarismo, secondo il quale (semplificando) massimizzando l’utilità si massimizza la felicità. In altre parole, più cose si hanno più si è in grado di fare cose: questa è la grande promessa di un mondo in cui avere cose è diventato facile e urgente, una promessa che va a stimolare, appunto, il nostro bisogno di essere felici.
Il grande equivoco, secondo Melandri, è che la felicità non dipende da questo rapporto utilitaristico tra le persone e le cose. La felicità dipende sempre da una relazione.
Fare fundraising comporta, quindi, proporre alle persone un significato diverso dal rapporto utilitaristico tra le persone e le cose. Significa proporre una relazione e non un’utilità, nonostante tutti i riscontri sull’impatto del non profit sui risultati e sulle varie success metrics siano importanti. Perché se il fundraising riproporrà il meccanismo di scambio che sta alla base di qualunque transazione economica, sarà sempre un confronto perdente.
Comprare è facile e ha un costo di attivazione basso: per essere felici di una relazione, invece, bisogna impegnarsi. E, soprattutto, essere in due. Ecco perché fare il fundraiser significa diventare parte della storia di una persona.
Solo se la causa è rilevante nella vita del donatore, costui deciderà di impegnarsi in quella che è a tutti gli effetti una relazione e non una semplice transazione economica. Uno sforzo molto più impegnativo rispetto al costo di attivazione di un telefonino.
Il vero tema della raccolta fondi, quindi, diventa: qual è il significato della donazione per me che dono? Perché non posso semplicemente viverlo come una transazione commerciale: la pressione dell’acquisto è enormemente più forte.
Il rapporto con le persone comincia quando ho meno beni. Ecco perché “impoverirsi”, donando qualcosa per non avere - tecnicamente - nulla in cambio. Valerio Melandri cita W. Buffet quando nel 2006, dopo aver donato 37 miliardi di dollari, alla domanda “Perché ha donato”, rispose che, avendo 3 figli, voleva lasciare loro abbastanza per fare qualcosa, ma non troppo per non fare più niente.
Ancora una volta è ribadito il punto: avere troppo è un ostacolo alla felicità. La felicità di una donazione, invece, può durare a lungo, finché esiste la relazione che l’ha motivata. Questa è la scommessa per cui ha senso fare il mestiere del fundraiser.
Una dei punti di vista più interessanti dello speech di Valerio Melandri è quello sull’importanza del donatore. L’attenzione delle organizzazioni è molto spesso sbilanciata esageratamente a favore del donatore. Questo squilibrio è frutto di una prospettiva sbagliata, perché il tema non è “trovare i donatori”. Non esiste il “filantropo” o “il profilo del donatore”.
Quella che Valerio Melandri chiama una “scomoda verità” è che quasi tutti i doni sono sollecitati e facilitati. La maggior parte delle volte, chi dona lo fa perché gli viene chiesto esplicitamente.
Nel 96% dei casi le donazioni sono reattive e non proattive. La filantropia dipende molto più dall'azione del fundraiser che dalla libera iniziativa del donatore. E in realtà questa attenzione andrebbe rovesciata, perché il soggetto principale non è il donatore ma chi scatena la sua reazione. Sarebbero molto più importanti le indagini sui fundraiser che non sui donatori, perché è esattamente da loro che dipendono le donazioni. La filantropia dipende molto di più da chi chiede che da chi dona.
In conclusione, alcune considerazioni che riguardano la percezione del fundraising. Questa percezione, secondo Valerio Melandri, consiste nel credere che fare il fundraiser è facile. Perché chiunque, prima o poi nella sua vita, ha raccolto soldi: per il matrimonio del parente, per la lotteria della scuola, per il compagno di classe in difficoltà. In realtà però fare fundraising significa stabilire un legame diretto dove c’è in realtà solo un legame indiretto. E questo è tutt’altro che un processo naturale.
D’altra parte, ricorda Valerio Melandri, chiedere soldi non è una cosa di cui avere paura; è piuttosto felicità. Anche perché quello che fa il fundraiser non è semplicemente chiedere soldi: è cambiare, in qualche misura, la vita delle persone.
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